Il 20 Ottobre 2001, presso i nuovi locali della Banca di Credito Cooperativo di San Giorgio e Meduno, viene inaugurata la mostra delle opere su carta di Duilio Jus, artista di Castions scomparso nel 1982.
La presentazione di Giancarlo Pauletto
Sfogliando e risfogliando le opere su carta di Duilio Jus, messe a disposizione per la mostra che questo catalogo testimonia, è inevitabile, per chi scrive, riconoscere al pittore la sua qualità di legittimo erede di una tradizione della pittura friulana, che a sua volta ha naturalmente rapporti con la pittura nazionale e internazionale. Jus è nato nel 1933 ed è morto, ancor giovane, nel 1983, i suoi vent’anni dunque li compie mentre è ancora ben presente – in Italia e in Friuli, dove la tendenza ha avuto grande rilievo di autori e opere – il realismo del dopoguerra, che metteva al centro della sua attenzione la vita popolare, e quindi, negli anni cinquanta, la vita contadina. E’ quasi inutile citare, a questo proposito, la pittura di Zigaina, di Anzil, di Canci Magnano, e poi quella di un autore vicino anche territorialmente al giovane Jus, quel Federico De Rocco, che a San Vito andava componendo anno dopo anno una sorta di racconto gnomico sul lavoro artigiano e contadino. Chi ha presenti certe opere ad olio di Jus, come ad esempio le “Figure” del 1965, o la “Natura morta con tazza” del ’69, potrà rilevare senza difficoltà come sia presente anche in esse, – certo, sintetizzata e allusa, l’informale nel frattempo non era passato invano – una corposità d’impostazione che era anche di De Rocco, e che in Jus diventa gusto materico e denso della cromia. Ciò va almeno accennato in questa sede, per stabilire dei rapporti culturali che sono necessari anche a comprendere il lavoro grafico di Jus, nel quale possiamo riconoscere momenti successivi, che all’interno della loro specifica maturazione e densità, non mancano tuttavia di ricordare altre esperienze artistiche locali e nazionali che si susseguono nel corso degli anni sessanta e settanta. Si parte con un foglio datato 1953, buon testimone della capacità del giovane pittore di rendere con tratto sicuro un momento di vita quotidiana e popolare. Viene raffigurato un uomo che canta a squarciagola con un bicchiere in mano, e l’immagine è viva, puntuale, ci dice come Jus sia già padrone di una buona tecnica. Sicché non meraviglia trovare poi due gruppi di disegni, datati 1959-60, in cui la ricerca è consapevolmente indirizza ad indagare i risultati che si possono ottenere lavorando sulla carta con varie tecniche: il puro tratto, il carboncino con e senza acqua, figure colorate a tempera, pastello o acquarello. Che si tratti di ricerche e prove viene altresì confermato dal fatto che il modello è spesso ritornante, a verificare puntualmente la diversità di effetto delle varie soluzioni. Si potrebbe pensare che queste prove, pur interessanti, siano magari solo dei momenti di passaggio, ma non è così, perché la qualità finale di parecchie di esse è invece alta, definita, e quindi costituisce un risultato acquisito. Le figure ritratte, infatti, sono sempre colte in un momento psicologico vero, in un attimo del tempo: il pittore, dunque, non si occupa solo della propria mano, di esercitarne fluenza e duttilità, ma anche del proprio sguardo, di come esso vede la realtà ritratta. Ecco allora che i fogli – che possono richiamare certi esempi classicheggianti di Picasso, o, per rimanere più vicini, certi nitidissimi risultati del sanvitese Tramontin, o dell’opitergino Buso, – si stagliano in una precisa astanza, raccontano sinteticamente di una vita, e dunque reggono assai bene l’urto del tempo. Ciò anche quando l’andatura del ritratto – e questo accade specie in alcuni bei pezzi del ’60 – svolta verso un’intenzione espressionista, caricandosi di malinconia e di una sotterranea tensione: allora ecco che disegno, tempera e acquarello, in prove anche di tono curiosamente paracubista, servono a inscenare figure di più malinconica e dolente umanità. E’ a partire dal 1963 che inizia, in base ai fogli che stiamo esaminando, una nuova fase nel lavoro grafico di Jus, quella che possiamo definire, con espressione contraddittoria ma evidentemente significativa, informale – figurativa, dove il primo posto dato al termine “informale” vuol appunto sottolineare contesto e stigma di queste opere. Il contesto si identifica con quella direzione dell’arte europea e mondiale, quindi anche italiana e friulana, che affidava al segno, alla traccia, al gesto una apprensione fortemente temporalizzata, e al fondo assai spesso drammatica, della realtà, direzione che annovera tra le sue file, ad esempio, un pittore come Vedova. Ma l’ “informale”di Jus, abbiamo detto, è “figurativo”, cioè mai del tutto abbandona l’elemento della riconoscibilità dell’immagine, anche se la travolge in una scena di tracce e gesti che sembrano volerne rinnegare la sostanza, esiliandola in una sorta di sogno, o di mito memoriale, o di terra di nessuno che aspetti la sua definitiva cancellazione. Si tratta, a mio parere, dei suoi fogli più belli, e dei più commoventi anche, dato che il mondo di cui Jus racconta la cancellazione è il mondo in cui anch’egli è cresciuto, quello che durante il realismo sembrava la più solida realtà, il mondo contadino, il mondo del paese e del borgo. Non si tratta né di arcadia né di nostalgie, perchè certo il sentimento sotteso da queste carte è il dramma, non il vagheggiamento del bel tempo antico. E’ infatti il mondo contadino, nelle sue figure naturali, che qui riceve l’ultima istantanea illuminazione – come in un bagliore di temporale – prima di sparire: sono nature morte con la cesta della verdura, accompagnate a qualche frutto o a qualche pannocchia, sono figure che lavorano dentro interni con attrezzi agricoli, processioni di paese, silenziosi colloqui in stanze appena intraviste, poveri nudi alla toilette, artigiani al lavoro, il tutto in una luce scura, notturna, senza spiragli. Questi disegni continuano durante gli anni sessanta, ve n’è un sostanzioso gruppo datato al ’66, del ’67 vi sono alcune stampe a monotipo – tra cui qualcuna particolarmente notevole – mentre attorno al ’69 sono realizzati, con l’inserimento di colori bassi e trattenuti, un gruppo di fogli che raffigurano dei suonatori, anche qui con corsiva felicità. Resta da accennare, infine, ad altri due momenti significativi nella vicenda grafica di questo autore: del ’78 sono un gruppo di disegni a matita e china – evidentemente studi per una “natività contadina”, visto che vi appaiono il bambino, il bue e l’asino, una Madonna che spannocchia e un San Giuseppe che maneggia la forca; sono lavori molto più figurativi di quelli degli anni sessanta, condotti con sicurezza; poi, datati dal ’77 all’ ’82, sei monotipi pulitissimi, e di tema ancora precisamente caratterizzato: donne che lavorano con la vanga, o piegate sul cesto, o nella stalla a mungere, e ritornano, sia pure come alleggerite dalla tecnica del monotipo, le solidità saettiane di De Rocco, una spazialità accennata e tuttavia chiaramente definita. L’opera di Jus si chiude così in un cerchio che, consapevole della fine di un mondo che aveva più di diecimila anni di vita, ne testimonia il transito con lirica – ma più spesso drammatica – commozione.
Giancarlo Pauletto