Da molti anni Enzo Morson porta avanti una ricerca personalissima sulle forme geodetiche e sulle possibilità che offrono di realizzare grandi strutture o addirittura case di abitazione.
Dall’incontro con un oggetto avente queste forme prende avvio una ricerca empirica delle regole e relazioni che sottendono alle strutture di questo tipo e che lo portano a realizzare curatissimi modelli in legno.
Solo più avanti egli scoprirà che Buckminster Fuller, inventore, architetto e filosofo americano, è stato l’ideatore e lo sviluppatore delle “cupole geodetiche”, strutture molto
leggere e robuste, basate su forme geometriche che trovano anche diretto riferimento nella natura.
Ed è proprio nel ricordo di Richard Buckminster Fuller, il 12 luglio 2015, esattamente a 120 anni dalla sua nascita, che viene inaugurata la mostra di Enzo Morson.
Domenica 12 luglio 2015 ore 18.00 Galleria Civica d’Arte “Celso e Giovanni Costantini” (Castions di Zoippola)
Inaugurazione della mostra di modelli di strutture geodetiche di Enzo Morson
L’opera e l’eredità di Buckminster Fuller a 120 anni dalla sua nascita
La ricerca personale di Enzo Morson
Domenica 12 luglio 2015 ore 19.00 Casa Morson (via Casarsa 86, Orcenico Superiore)
Inaugurazione della grande struttura geodetica realizzata nel prato adiacente alla casa
La mostra è realizzata in collaborazione con il Comune di Zoppola e la Galleria Civica d’Arte “Celso e Giovanni Costantini”.
In contemporanea con la grande mostra Angiolo D’Andrea 1880-1942 – La riscoperta di un maestro tra Simbolismo e Novecento, a cura di Luciano Caramel e promossa dalla Fondazione Bracco in collaborazione con il Comune di Pordenone, che dal 10 aprile al 21 settembre 2014 sarà ospitata nella Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Armando Pizzinato”, si rende ulteriore omaggio all’artista di Rauscedo per iniziativa dell’Amministrazione Comunale di San Giorgio della Richinvelda.
Allestita nella Sala Consiliare del Palazzo Comunale, questa esposizione intende presentare al pubblico un aspetto ancora poco noto del poliedrico artefice approfondendo la sua attività d’illustratore per l’editoria. In mostra è esposta una significativa silloge di volumi e riviste dalle copertine illustrate da Angiolo D’Andrea, pubblicazioni peraltro date alle stampe dai maggiori editori del tempo. A queste opere si affianca una serie di splendide tavole disegnate per prestigiose riviste dell’epoca quali “Arte Italiana Decorativa e Industriale” e “Modelli d’Arte Decorativa”.
Fanno bella mostra anche oggetti e documenti riguardanti l’artista, un intenso Autoritratto con tavolozza e alcuni modelli stampati su carta desunti da stoffe disegnate dal pittore rauscedano. E ancora, si rammenta l’esposizione di un mosaico realizzato da Lucio Bertoia che riproduce un significativo particolare dei celebri mosaici ornanti le pareti dello storico Bar Camparino di Milano, opera musiva anch’essa realizzata (nel 1915) su disegno del genio di Angiolo.
Accompagna l’esposizione un catalogo scritto da Stefano Aloisi, con prefazione di Luciano Caramel, dove lo studioso ripercorre le vicende relative all’attività d’illustratore del D’Andrea, inserendo tale operosità nel più vasto contesto italiano e con utili raffronti con quanto al tempo si andava proponendo negli scenari dell’illustrazione europea.
La mostra organizzata dal Comune di San Giorgio della Richinvelda si avvale della sensibilità dei vari sponsor: Friulovest Banca, Vivai Cooperativi di Rauscedo e Cantina Rauscedo.
L’inaugurazione è sabato 10 aprile alle ore 11 e la mostra sarà poi aperta dal 12 aprile al 21 settembre nei giorni di lunedì, martedì, mercoledì, venerdì e sabato dalle ore 9.30 alle 12.30 (giovedì chiuso), nel giorno di mercoledì è prevista anche l’apertura pomeridiana dalle ore 15.30 alle 18.00. Domenica 13 aprile e la prima domenica di ogni mese sarà possibile visitare la mostra dalle ore 15.30 alle 18.00.
Visite guidate ai “luoghi di Angiolo” a Rauscedo, saranno svolte, su prenotazione, la prima domenica di ogni mese dalle ore 15.30 alle 18.00.
Cent’anni fa l’Amico del Contadino descriveva così i vigneti del nostro territorio:
“Ma che vigneti! Giardini! Non un filo d’erba sulla linea dei filari, non una foglia bruciata … Viti sane, ben potate, prodotto abbondantissimo e buonissimo. Il viticoltore, non è un agricoltore comune, è un agricoltore di grado più elevato che si avvicina quasi al giardiniere…”
E così del vino che qui si produceva:
“Abbiamo trovato largamente diffuso un Refosco nostrano a grappolo grande e compatto, di pregio grandissimo sia per la qualità che per la quantità della produzione. E’ il vitigno che forma la base del tanto reputato vino del luogo, che viene completato colla Cordenossa e colla Palomba”.
E’ questo il “vin di Uchì” che ora riproponiamo nella terza edizione de “le radici del vino”, certi di suscitare l’interesse dei connoisseurs ma anche di compiere un’importante operazione di recupero e valorizzazione di vitigni ormai creduti scomparsi.
Il tutto all’interno di un ampio programma che prevede anche visite e degustazioni presso le cantine aperte per l’occasione e momenti divulgativi, artistici e culturali.
PROGRAMMA
Sabato 8 ottobre ore 16 – Convegno nell’Auditorium della Biblioteca
Vecchi refoschi del Friuli
presentazione di ricerca e pubblicazione sui vecchi refoschi con particolare riferimento al “Refosco di Rauscedo” a cura del dott. Del Zan direttore dell’Ente Regionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura
Il vin di Uchì
da refosco di Rauscedo, Palomba e Cordenòs rinasce, dopo un secolo, il Vino delle Radici (prima degustazione del Refosco di Rauscedo). A cura di Augusto Fabbro, ricercatore ERSA
Domenica 9 ottobre ore 16
Cantine Aperte e Arte in Mostra (dalle 10 alle 18)
degustazione dei vini del territorio e visita delle mostre presso le aziende aderenti. Avvio delle visite guidate alle 10 partendo dalla Cantina di Rauscedo.
Cantina Sociale di Rauscedo: Scuola Mosaicisti del Friuli
Cantina Sociale Vini San Giorgio: Scuola Mosaicisti del Friuli
Castelcosa: Norma Antonini
Forchir: Alfredo Pecile
I Magredi: Luca Infanti
Steva del Marchi: Giovanna Rota
Tondat: Federica Lenarduzzi
Luigi Pellegrin viene ricordato dai collaboratori dello studio romano e da Luca Zevi con una mostra dei disegni e delle opere venerdì 16 dicembre 2005 alle ore 18, presso l’auditorium della Biblioteca a San Giorgio della Richinvelda.
La mostra rimane aperta fino al 31 dicembre 2005.
Nato da una famiglia di solidi costruttori friulani, all’età di 5 anni è condotto dal padre, una domenica mattina, a vedere le fondazioni di un edificio che egli faceva con Brasini. È la prima rivelazione. Per altri cinque anni il giovane Pellegrin ne segue affascinato la
costruzione ed elabora nel contempo una sua idea di architettura che più tardi così riassumerà: “L’architetto non è una figura professionale, è un’entità scelta dal gruppo sociale per visualizzare e costruire il livello di qualità raggiunto da quel gruppo; l’organismo realizzato funzionerà allora da incubatrice, organizzando in scambi positivi i conflitti reali del momento”.
Si iscrive tardi alla Facoltà di Architettura di Roma, a 21 anni. Poi va negli Stati Uniti prima a New Orleans e poi a Chicago e qui ha la sua seconda rivelazione. Conosce l’opera di Sullivan e di Wright da cui assorbe, per sempre, indelebilmente, il senso della spazialità,
della tecnologia e quello missionario della professione d’architetto. Sino alla fine degli Anni ’70 Pellegrin realizza circa 300 edifici, di cui 200 scuole, molte delle quali costruite utilizzando uno dei 14 brevetti per sistemi di prefabbricazione da lui inventati. Uno di questi edifici è dichiarato “monumento nazionale”. Lavora anche all’estero in
Venezuela, Nigeria, Ciad, Spagna, Senegal, Arabia Saudita. Dagli Anni ’80 si occupa essenzialmente delle grandi pianificazioni a scala urbana e regionale con l’idea di eliminare la separazione tra Architettura e Urbanistica. Collabora con Rogers e Halprin al piano per Novoli a Firenze, elabora il master plan per le FS di Roma e poi altri piani per Torino, Siracusa, San Antonio in Texas e altri in Venezuela e altrove.
Così ne parla un suo giovane allievo:
“Da quasi mezzo secolo egli si dedica alla ricerca, all’invenzione, alla progettazione e alla realizzazione di un habitat migliore per l’uomo. Contemporaneamente, prima come docente universitario ed ora come maestro, devolve gran parte del suo tempo e della sua energia all’insegnamento e alla divulgazione della conoscenza acquisita. Questo per quanto riguarda il suo contributo diretto alla cultura architettonica. Inoltre: la sua serietà, il suo impegno ed il suo coraggio sia da un punto di vista professionale che da quello umano, sono un esempio per chiunque intraprenda la carriera dell’Architetto”.
(Tratto dal Discorso di Manfredi Nicoletti per la consegna a Luigi
Pellegrin del Premio alla Carriera istituito dall’Ordine degli Architetti di
Roma e dall’IN/ARCH Lazio. Castel Sant’Angelo, Roma 8 ottobre 2000)
L’architetto Luigi Pellegrin si è spento a Roma, nel 2001, all’età di 76
anni. È sepolto nel cimitero di Domanins (PN).
Il 21 Dicembre 2002 San Giorgio della Richinvelda ha ricordato l’artista a 60 anni dalla sua scomparsa con una monografia curata da Stefano Aloisi, una mostra di sue opere provenienti da collezioni locali, una presentazione su CD-Rom e con queste pagine web.
E’ stato inoltre coinvolto lo studio Rizzin Mosaici di Irene Rizzin per una reinterpretazione in mosaico di un lavoro del D’Andrea, nel ricordo di quella che è forse l’opera più visibile e nota al grande pubblico, il mosaico alle pareti del Caffè Miani in Galleria a Milano.
Pubblichiamo qui di seguito alcune immagini di opere significative che consentono di cogliere la grande originalità di questo pittore, nato a Rauscedo nel 1880, esponente di spicco della Milano artistica degli anni 20 e 30, ed uno scritto dall’architetto G. Arata che ne traccia un profilo umano ed artistico.
mosaico del Caffè Miani in Galleria (particolare)
cardi
ritratto di signora
ulivi saraceni
paesaggio trentino
autoritratto con zucchetto verde
ANGIOLO D’ANDREA
(…) nelle espressioni pittoriche formali, nei valori cromatici, nelle linee e nei chiaroscuri, si avvicina al Carpi per serietà e nobiltà di spirito. Tra i meandri perscrutabili dell’arte sa scoprire anche egli quello che l’arte ha di vitale e di palpitante. Ma la volontà coordinatrice di Angiolo D’Andrea non si limita a sfruttare una sola delle risorse individuali: il suo ingegno poliedrico e multiforme e la sua mentalità nutrita di saldi studi, lo trasportano a ricerche che rivelano quali immagini nuove e quali risultati inaspettati sappia raggiungere colui che, cautamente, sa insinuarsi tra le recondite bellezze della pittura.
Perció del paesaggio vi dà con colori vivacissimi tutte le bellezze incomparabili e le piú tenui vibrazioni luminose, della materia inorganica il balenio fuggitivo dei riflessi e le caratteristiche piú strane, della decorazione le combinazioni piú seducenti, del disegno le velature piú ricercate e le sfumature piú misteriose.
Tutto si trasforma attraverso il giuoco della sua fantasia: anche le cose piú umili si traducono in altrettante immagini pittoresche e acquistano, attraverso la di lui valorizzazione oggettiva, una preziosità che la natura stessa non ha saputo dargli.
Un singolare esempio di quanto veniamo dicendo, l’abbiamo nel quadro intitolato «Tesoro» dove l’artista si diverte ad accostare i colori piú smaglianti e piú inaspettati della madreperla.
Nonostante peró tutta un’attività molteplice, sparsa in una ricca serie di lavori eseguiti in questi ultimi anni, il D’Andrea è maggiormente noto come paesista; ed in questa mostra personale non espone che una serie di impressioni e di paesaggi tra i quali le due grandi tele – Lago di Nemi (premiata col «Fumagalli» in una delle biennali milanesi) e Passato inverno – altra pregevole composizione paesistica che faceva parte di un gruppo di opere, esposte anch’esse a Milano, di cui una trovasi attualmente nella Galleria del Castello Sforzesco.
Il Tempio e la Steccata di Parma, opere del medesimo periodo colpiscono l’osservatore, ancora piú delle precedenti, sia per l’effetto immediato della loro esauriente tecnica che per il caratteristico fascino degli accordi cromatici; e, anche, per una particolare disposizione euritmica dei «vuoti e dei pieni» che danno una singolare originalità a tutto l’insieme. Infatti, gli scorci prospettici e le masse architettoniche, che in ognuno di questi quadri seguono oggettivamente le linee ed i piani che si vedono nel vero, assumono uno strano aspetto di cose fantastiche ed immaginarie.
Ma dove il giovane pittore sa fondere mirabilmente in una sintesi serrata i rapporti coloristici della materia inerte con la mobilità velocissima dei riflessi che la luce proietta sulla materia stessa, è nei quadri da lui eseguiti durante le peregrinazioni militari dei lunghi anni di guerra.
L’Adunata, il Ceolin, Mare di nebbia, il Civaron, ed alcune impressioni di Sicilia, ispirate dalla paradossale struttura di ulivi millenari tormentati e logorati dal tempo, costituiscono un gruppo di opere le quali segnano anche per D’Andrea una notevolissima conquista verso una visione personale e potentissima del vero.
I disegni incisivi e morbidi – elaborati pazientemente come preparazione parziale dei quadri – e le innumerevoli impressioni, difficile a descriversi ad una ad una tanta è la varietà di composizione, di forma e di tonalità che in esse si riscontrano, sono narrazioni di sottile poesia e si ammirano come si ammira uno strano gioiello composto di pietre rare e preziose.
L’alto valore di questo sensibilissimo artista, si rivela appunto nel saper cogliere gli effetti pittorici di un paesaggio nelle sue alterazioni fugaci e di fissarlo con sintesi rapidissima nei suoi contrasti piú armonici. Altipiani ampi ed ondulati, rupi squallide ed aspre, chine molli cosparse di ulivi, pianure vaste tormentate da iridescenti corsi d’acqua, cieli visti attraverso le continue sfumature, nature morte, curiosità folkloristiche, sono temi da lui svolti con una valutazione acuta e misurata e con una così curiosa ricerca personale che rivelano un talento di primissimo ordine.
Questo suo studio analitico, e questa sua valutazione dei fenomeni coloristici, lo hanno portato a concepire una forma di arte decorativa genialissima che ha per capisaldi non il solito schema classico, basato su formole tradizionali, ma su una intelaiatura bizzarra di linee tutte cosparse di accostamenti coloristici strani i quali, fondendosi con tutto l’ insieme, danno un’unità di stile espressivo, nuovo ed originale.
E qui, a Milano, dove D’Andrea vive e lavora da parecchi anni, vi sono già vari esempi di questo suo modo di concepire la decorazione.
Nato a Rauscedo di San Giorgio della Richinvelda, era sceso, giovanissimo, dalle pianure friulane con la febbre interiore della conquista, come quegli antichi artefici che, inconsapevoli, si sentivano attratti verso la forza irresistibile delle grandi personalità allora intente a ridare all’Italia, e per la seconda volta, una nuova arte.
Angiolo D’Andrea, nato in un’epoca in cui l’arte era ancora chiusa nella parentesi di flaccidi formalismi non si sentì attratto da nessuna di quelle personalità che altre volte sapevano rischiarare di nuova luce tutto un secolo, ma a poco a poco, con lo studio paziente e con tenacia dell’autodidatta seppe conquistarsi, tra le personalità contemporanee, uno dei primi posti.
G. U. Arata
(Vita d’Arte, n.131-132, 1918)
Immagini della presentazione della mostra e dell’allestimento
Altri documenti su Angiolo D’Andrea:
La monografia a cura di Stefano Aloisi
L’architettura attraverso l’arte dei pittori: Angiolo D’Andrea
Il 20 Ottobre 2001, presso i nuovi locali della Banca di Credito Cooperativo di San Giorgio e Meduno, viene inaugurata la mostra delle opere su carta di Duilio Jus, artista di Castions scomparso nel 1982.
La presentazione di Giancarlo Pauletto
Sfogliando e risfogliando le opere su carta di Duilio Jus, messe a disposizione per la mostra che questo catalogo testimonia, è inevitabile, per chi scrive, riconoscere al pittore la sua qualità di legittimo erede di una tradizione della pittura friulana, che a sua volta ha naturalmente rapporti con la pittura nazionale e internazionale. Jus è nato nel 1933 ed è morto, ancor giovane, nel 1983, i suoi vent’anni dunque li compie mentre è ancora ben presente – in Italia e in Friuli, dove la tendenza ha avuto grande rilievo di autori e opere – il realismo del dopoguerra, che metteva al centro della sua attenzione la vita popolare, e quindi, negli anni cinquanta, la vita contadina. E’ quasi inutile citare, a questo proposito, la pittura di Zigaina, di Anzil, di Canci Magnano, e poi quella di un autore vicino anche territorialmente al giovane Jus, quel Federico De Rocco, che a San Vito andava componendo anno dopo anno una sorta di racconto gnomico sul lavoro artigiano e contadino. Chi ha presenti certe opere ad olio di Jus, come ad esempio le “Figure” del 1965, o la “Natura morta con tazza” del ’69, potrà rilevare senza difficoltà come sia presente anche in esse, – certo, sintetizzata e allusa, l’informale nel frattempo non era passato invano – una corposità d’impostazione che era anche di De Rocco, e che in Jus diventa gusto materico e denso della cromia. Ciò va almeno accennato in questa sede, per stabilire dei rapporti culturali che sono necessari anche a comprendere il lavoro grafico di Jus, nel quale possiamo riconoscere momenti successivi, che all’interno della loro specifica maturazione e densità, non mancano tuttavia di ricordare altre esperienze artistiche locali e nazionali che si susseguono nel corso degli anni sessanta e settanta. Si parte con un foglio datato 1953, buon testimone della capacità del giovane pittore di rendere con tratto sicuro un momento di vita quotidiana e popolare. Viene raffigurato un uomo che canta a squarciagola con un bicchiere in mano, e l’immagine è viva, puntuale, ci dice come Jus sia già padrone di una buona tecnica. Sicché non meraviglia trovare poi due gruppi di disegni, datati 1959-60, in cui la ricerca è consapevolmente indirizza ad indagare i risultati che si possono ottenere lavorando sulla carta con varie tecniche: il puro tratto, il carboncino con e senza acqua, figure colorate a tempera, pastello o acquarello. Che si tratti di ricerche e prove viene altresì confermato dal fatto che il modello è spesso ritornante, a verificare puntualmente la diversità di effetto delle varie soluzioni. Si potrebbe pensare che queste prove, pur interessanti, siano magari solo dei momenti di passaggio, ma non è così, perché la qualità finale di parecchie di esse è invece alta, definita, e quindi costituisce un risultato acquisito. Le figure ritratte, infatti, sono sempre colte in un momento psicologico vero, in un attimo del tempo: il pittore, dunque, non si occupa solo della propria mano, di esercitarne fluenza e duttilità, ma anche del proprio sguardo, di come esso vede la realtà ritratta. Ecco allora che i fogli – che possono richiamare certi esempi classicheggianti di Picasso, o, per rimanere più vicini, certi nitidissimi risultati del sanvitese Tramontin, o dell’opitergino Buso, – si stagliano in una precisa astanza, raccontano sinteticamente di una vita, e dunque reggono assai bene l’urto del tempo. Ciò anche quando l’andatura del ritratto – e questo accade specie in alcuni bei pezzi del ’60 – svolta verso un’intenzione espressionista, caricandosi di malinconia e di una sotterranea tensione: allora ecco che disegno, tempera e acquarello, in prove anche di tono curiosamente paracubista, servono a inscenare figure di più malinconica e dolente umanità. E’ a partire dal 1963 che inizia, in base ai fogli che stiamo esaminando, una nuova fase nel lavoro grafico di Jus, quella che possiamo definire, con espressione contraddittoria ma evidentemente significativa, informale – figurativa, dove il primo posto dato al termine “informale” vuol appunto sottolineare contesto e stigma di queste opere. Il contesto si identifica con quella direzione dell’arte europea e mondiale, quindi anche italiana e friulana, che affidava al segno, alla traccia, al gesto una apprensione fortemente temporalizzata, e al fondo assai spesso drammatica, della realtà, direzione che annovera tra le sue file, ad esempio, un pittore come Vedova. Ma l’ “informale”di Jus, abbiamo detto, è “figurativo”, cioè mai del tutto abbandona l’elemento della riconoscibilità dell’immagine, anche se la travolge in una scena di tracce e gesti che sembrano volerne rinnegare la sostanza, esiliandola in una sorta di sogno, o di mito memoriale, o di terra di nessuno che aspetti la sua definitiva cancellazione. Si tratta, a mio parere, dei suoi fogli più belli, e dei più commoventi anche, dato che il mondo di cui Jus racconta la cancellazione è il mondo in cui anch’egli è cresciuto, quello che durante il realismo sembrava la più solida realtà, il mondo contadino, il mondo del paese e del borgo. Non si tratta né di arcadia né di nostalgie, perchè certo il sentimento sotteso da queste carte è il dramma, non il vagheggiamento del bel tempo antico. E’ infatti il mondo contadino, nelle sue figure naturali, che qui riceve l’ultima istantanea illuminazione – come in un bagliore di temporale – prima di sparire: sono nature morte con la cesta della verdura, accompagnate a qualche frutto o a qualche pannocchia, sono figure che lavorano dentro interni con attrezzi agricoli, processioni di paese, silenziosi colloqui in stanze appena intraviste, poveri nudi alla toilette, artigiani al lavoro, il tutto in una luce scura, notturna, senza spiragli. Questi disegni continuano durante gli anni sessanta, ve n’è un sostanzioso gruppo datato al ’66, del ’67 vi sono alcune stampe a monotipo – tra cui qualcuna particolarmente notevole – mentre attorno al ’69 sono realizzati, con l’inserimento di colori bassi e trattenuti, un gruppo di fogli che raffigurano dei suonatori, anche qui con corsiva felicità. Resta da accennare, infine, ad altri due momenti significativi nella vicenda grafica di questo autore: del ’78 sono un gruppo di disegni a matita e china – evidentemente studi per una “natività contadina”, visto che vi appaiono il bambino, il bue e l’asino, una Madonna che spannocchia e un San Giuseppe che maneggia la forca; sono lavori molto più figurativi di quelli degli anni sessanta, condotti con sicurezza; poi, datati dal ’77 all’ ’82, sei monotipi pulitissimi, e di tema ancora precisamente caratterizzato: donne che lavorano con la vanga, o piegate sul cesto, o nella stalla a mungere, e ritornano, sia pure come alleggerite dalla tecnica del monotipo, le solidità saettiane di De Rocco, una spazialità accennata e tuttavia chiaramente definita. L’opera di Jus si chiude così in un cerchio che, consapevole della fine di un mondo che aveva più di diecimila anni di vita, ne testimonia il transito con lirica – ma più spesso drammatica – commozione.